Articoli su Giovanni Papini

2020


Enrico Nadai

Giovanni Papini: un uomo infinito

Pubblicato in: Gli indifferenti.
Data: 22 marzo 2020




Il martello del pensiero e l’incudine della grandezza furono le armi della battaglia contro la mediocrità condotta da Giovanni Papini. Una battaglia solitaria, durata un’intera vita, rumorosa e con risvolti prometeici. Papini si divise tra la giovanile volontà di sbarazzarsi di Dio – infarcita del titanismo sgraffignato tra un libro l’altro –, il traviamento di volerlo essere e la tardiva conversione al cristianesimo. “Un uomo finito”, titolava la sua autobiografia redatta a trent’anni; ma in lui non c’era nulla che potesse condurre ad una qualche finitudine. Anzi, fu la sua esplosività incontenibile, disordinata e caleidoscopica, a farne un uomo scisso tra gli interessi enciclopedici di un Jakob Mendel; quelli filosofici, scientifici e religiosi maneggiati con acribia e originalità, tanto da far storcere il naso al filosofo patentato Benedetto Croce; e l’attività frenetica di pubblicista, tra saggi e biografie, furenti stroncature e appelli provocatori.

«Ogni volta che una generazione s‘affaccia alla terrazza della vita pare che la sinfonia del mondo debba attaccare un tempo nuovo. Sogni, speranze, piani di attacco, estasi delle scoperte, scalate, sfide, superbie – e un giornale». Nelle parole di Papini alberga l’energia di una generazione agli albori del ‘900, con l’esigenza impaziente di stravolgere un paese senza vita, senza unità ideale, senza scopo comune: l’Italia. Da lui risolta nella formula:«ognuno per sé e camorra per tutti». L’amico Prezzolini completerà l’affresco dividendo gli italiani in furbi e fessi, con relative dissezioni (variante italianissima degli svegli e i dormienti eraclitei).

I due compresero che il farmaco contro la fiacchezza intellettuale dell’epoca fosse il giornale. La circolazione delle idee di quegli uomini, italiani e stranieri, abbandonati dalla memoria collettiva e dalla cultura ufficiale, veniva con esso riportata prepotentemente nell’agorà del dibattito. Con Prezzolini, Papini fondò la rivista “Leonardo”, durata quattro anni – dal 1903 al 1907 –, ispirata al genio italico di quell’uomo dagli occhi brumosi che aveva seminato enigmi e si era profuso nella conoscenza di tutto lo scibile, con un forte approccio pragmatico, abbandonando all’estasi della sua curiosità tanti suoi innovativi progetti.

E Papini possedeva la stessa vampiresca frenesia di sapere che lo portava a rimbalzare dal positivismo all’occultismo, dalle scienze logiche e matematiche alla mistica e la teosofia, dalla tradizione alle avanguardie, rendendolo sfuggente e incontenibile. Un personaggio ribelle ma anche filo-fascista, votato alla solitudine ma anche «tutti mi chiedono, tutti mi vogliono!… Uno alla volta, per carità!», come il Figaro rossiniano. E soprattutto ingiustamente trascurato, alla pari – si può dire, quale sobillatore culturale – dell’inglese Wyndham Lewis, che nacque un anno dopo Papini (1882) e morì l’anno seguente la sua morte (1957).

Lo scrittore fiorentino conobbe il pragmatista William James, incontrò a Roma Henri Bergson, si fece ammirare da Jorge Luis Borges per le sue «novelle metafisiche», fu citato con reverenza da Henry Miller, tenne rapporti epistolari con Giovanni Vailati, Miguel De Unamuno e Giovanni Amendola (fonderanno insieme la rivista “L’Anima”), incontrò Andrè Gide, Charles Peguy, Guillaume Apollinaire e Pablo Picasso. Le sue opere circolarono nel mondo in numerose traduzioni. E lui stesso volle sempre fare i conti con gli antichi e i contemporanei, dando filo da torcere a chiunque gli si facesse sotto, che si trattasse di un uomo o di un libro, che avesse per nome Friedrich Nietzsche o che fosse il becero filisteo segaiolo compagno di classe.

Papini era l’incarnazione di un sentiero interrotto, un cavallo di frisia col filo spinato: cordiale con pochi e in guerra con tutti, alla ricerca continua di intelligenze vivaci e sovvertitrici pari alla sua. Giannizzero dello scetticismo in giovinezza. Cresciuto tra letture solitarie al lume di candela. Illuso dal solipsismo di Berkeley, dall’“Unico” stirneriano, dallo psicologismo, dal superomismo. Con l’ansia di una vita eroica e la rabbia nel cuore per un mondo che, almeno da giovanissimo, non pareva accorgersi di lui. Dotato della superbia di chi vuol essere veramente «grande, epico, smisurato», capace di mutare i cuori infistoliti degli uomini e le sorti della terra.

Nel 1906 scrisse “Il crepuscolo dei filosofi”, il suo primo libro, servendosi di un richiamo nietzschiano nel titolo, per poi rifilargli randellate nel testo. Licenziare la filosofia e i filosofi: questo il telos. Gli stessi filosofi a cui doveva la propria formazione; il Kant borghese, mediocre e uomo piccolo; lo Spencer «meccanico disoccupato»; lo Hegel «bevitore di birra, scolaro poco precoce, lento, tardo, inoffensivo come un ruminante». Basta con la metafisica: per il Papini ammazza-filosofi era ora di trasformare la volontà e il sogno in realtà, servendosi degli strumenti scientifici e dell’anima per diventare padroni del mondo.

Sia fatto l’Uomo Dio! Queste le premesse di un pensiero abbozzato, frutto di quello svezzamento che è il passaggio dalla cultura assorbita a quella prodotta. Risultato altresì di uno spirito avido delle astrattezze culturali ma con un sentimento di stretto legame con la realtà vissuta.

Dalla fase antecedente alla Prima Guerra Mondiale fino almeno al 1942, quando Papini sarà vicepresidente e relatore al Convegno dell’Unione Europea degli scrittori riuniti a Weimar, non ci saranno dubbi da parte sua sul ruolo determinante, sul piano spirituale e culturale, della nazione italiana. E certamente pagò lo scotto, vivo anche nella critica, per la sua fiducia al fascismo, pur non aderendo alla RSI (e beninteso, nemmeno alla Resistenza) e la scarsa deferenza di chi a fatica digerisce quei personaggi marinettiani, tutti “cultura e cazzotti”, o alla Thomas Ernest Hulme.

C’è pure da riconoscere del vero, al tempo in cui la liceità a menar le mani è solo degli stupidi, se – Papini dixit – «le riviste non bastano ci voglion le pedate». Ma ai dionisismi militanti, alle pedate, le bestemmie e la focosità giovanili subentrano gli sconforti della vita avanzata, le piccole “felicità dell’infelice”, la ricerca di un’operosità silenziosa, ispirata dalla fede cristiana. Di commovente bellezza è il “Sant’Agostino”, narrazione della vita del Santo ove si riconosce una sorta di inconfessato – e inconfessabile – alter ego di Papini. «Nel suo tempo egli non fu tenuto in quel conto che ci s’aspetterebbe e tanto meno gli furon offerti quegli onori e quegli elogi che toccarono a tanti altri che valevano meno di lui».

Il Santo, confuso tra la eterogeneità delle dottrine circolanti, incontra Dio e lo serve fino alla morte. Lo stesso accadde per il fiorentino, sprofondato tra la temperie culturale novecentesca – considerato, per la verità – ma letteralmente rinato come apostolo della fede. La celebrità della sua “Storia di Cristo”, opera del 1921, fu tale che a recuperare Papini durante la Seconda Guerra Mondiale saranno due soldati americani, lettori entusiasti del suo scritto. Gli stessi Mircea Elide e Vintilia Horia impareranno l’italiano per occuparsi di lui.

Dopo il 1945, fino al decesso, Papini continuerà a scrivere procedendo per dettatura, a causa delle gravi condizioni di salute. Sono gli anni dell’incompiuto “Giudizio Universale”, dove una sfilata di personaggi storici e fantastici attende la sentenza del tribunale divino. Ma anche de “Il Diavolo”, scritto criticato dalla Chiesa cattolica e giudicato colmo di errori scapigliati e clamorosi.

C’è il dubbio che la domanda posta nel capitolo ottantacinquesimo del libro – “il Diavolo sarà salvato?” – sia in realtà un interrogativo che Papini rivolge a se stesso, riflettendo intorno a quel suo fratello di latte e tregende. La risposta è che «la misericordia alla fine dei tempi, cioè del mondo presente, dovrà sormontare anche la giustizia». Per il momento, su questa terra, sia fatta giustizia al grande Papini.


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